Il brigatista e l’operaio di Giovanni Bianconi. L’omicidio di Guido Rossa. Storia di vittime e colpevoli

Il Brigatista e l'operaioAlle volte vai in biblioteca per prendere un libro, per leggere un giornale, guardi le proposte  che sono esposte in bacheca e ti incuriosisci. Così è stato per il libro di Giovanni Bianconi, Il brigatista e l’operaio. L’omicidio di Guido Rossa. Storia di vittime e colpevoli.

Riporta in copertina l’immagine del corpo esamine di Guido Rossa, all’interno della sua Fiat 850. (Che bisogno c’era?) Il retro di copertina all’ultimo capoverso sanziona “La narrazione appassionante e viva di Bianconi affianca, alla verità difficile e scomoda del brigatista Guagliardo, la verità assoluta delle vittime, attraverso la figura di Sabina Rossa, la figlia di Guido.” Frase criptica. Nonostante questo prendi il libro.

Qui si integrano le biografie personali,  tratteggiate nel libro, degli uomini che hanno scritto quella storia: tutti operai.

Il libro è presente presso le biblioteche rionali

Francesco Berardi è nato a Terlizzi (Ba), il 20 maggio 1929. Emigrato a Genova ancora ragazzo, nel 1956, viene assunto all’Italsider come operaio. Dopo anni di lavoro nel reparto zincatura, viene promosso a capoturno. Un infarto determina il suo trasferimento a mansioni secondarie. Una specie di fattorino: gira per lo stabilimento in bicicletta, consegna bolle di carico e altre scartoffie. Dopo l’infarto ha avuto un principio di esaurimento nervoso.  E’ avvilito. In fabbrica è soprannominato “il poeta della rivolta” per le sue liriche rivoluzionarie. Guido Rossa lo vede spesso accanto alle macchinette distributrici di caffè dove, di quando in quando, vengono lasciati i comunicati delle Br. Il 25 ottobre 1978 alcuni operai trovano  un opuscoletto Brigate rosse.  Risoluzione della direzione strategica. Febbraio 1978. Giudo Rossa si fa consegnare il documento e si avvia verso gli uffici del consiglio di fabbrica. Cammino facendo vede più volte Berardi in bicicletta. Da ultimo lo vede chiacchierare con un rappresentante sindacale e nota che ha un rigonfiamento sotto la giacca: pensa che stia nascondendo altri opuscoli come quello ritrovato. Rossa espone i sui sospetti nel Consiglio di fabbrica. Si apre un dibattito su come comportarsi. Le indicazioni del PCI sono quelle di denunciare i sospetti fiancheggiatori dei terroristi. Le indicazioni dei sindacati e di altri partiti o gruppi sono meno intransigenti. La maggioranza dei delegati suggerisce cautela, sostiene che non bastano i dubbi di quella mattina. Ci vogliono più elementi e in ogni caso bisogna prima parlare con Berardi. La riunione si conclude senza che venga presa una decisione. Guido Rossa decide di segnalare quel che è successo e i sui sospetti al capo della Vigilanza dell’Italsider. Accompagnato da alcuni vigilantes cercano di rintracciare Bernardi, senza risultato. Più tardi Guido Rossa viene richiamato in direzione e insieme ad altri due delegati del consiglio di fabbrica trova un brigadiere dei carabinieri pronto a raccogliere la denuncia. Prima di verbalizzare il brigadiere propone che a firmarla siano più persone; creerebbe meno problemi per l’accertamento dei fatti e, soprattutto, aumenterebbe la sicurezza dei testimoni. I due delegati presenti non dicono nulla, Rossa, invece, si dichiara pronto a deporre. Il brigadiere raccoglie la sua testimonianza formale e in serata ripete innanzi al giudice. Nel frattempo sono state avviate le indagini. Nell’armadietto di Berardi sono rinvenuti documenti brigatisti tra cui il volantino di rivendicazione dell’omicidio di Pietro Coggiola, capofficina della Lancia ammazzato a Torino il 28 settembre, alcuni fogli con l’annotazione di numeri di targhe automobilistiche e due rubriche con indirizzi e recapiti telefonici. II processo per direttissima al presunto fiancheggiatore delle Br è fissato per la mattina del 30 ottobre. Nell’aula della corte d’assise Berardi coi polsi stretti dagli schiavettoni, circondato da sette carabinieri in divisa, saluta i fotografi col pugno chiuso. Lo difende l’avvocato genovese Edoardo Arnaldi, uno dei legali del Soccorso rosso, che chiede un rinvio per studiare la causa. La corte riconvoca il processo per la mattina successiva. Martedì 31 ottobre il processo si esaurisce nell’arco di una mattinata. Guido Rossa, senza rivolgere mai lo sguardo all’imputato dichiara: “Confermo quanto già dichiarato ai carabinieri”. Nella sua requisitoria il pubblico ministero dice: “Io ritengo che il Berardi sia stato trascinato in un gioco più grande di lui. La sua ansia è stata quella di poter vedere un’umanità migliore. La sua attività era limitata, in fondo, ad un ambito marginale. Egli credeva nella contestazione delle Brigate rosse, nella speranza che sia mutata questa società. Forse si è reso conto di aver seguito una strada sbagliata, di aver fatto una cosa non giusta. Egli non deve essere considerato un capro espiatorio… Non dobbiamo fare un processo politico. Dobbiamo bensì occuparci della repressione. Abbiamo da applicare il principio cardine del processo, che è quello della responsabilità personale. Processo quindi non alle Brigate rosse, ma al Berardi. Non pena esemplare, ma giusta punizione.” Che secondo il pubblico ministero, considerate le aggravanti e le attenuanti da contestare e concedere all’imputato, sono cinque anni di carcere. L’avvocato Arnaldi, nella sua arringa  cita l’assoluzione, al processo di Torino che s’è concluso da pochi mesi, di un’anziana amica dei brigatisti soprannominata Nonna Mao: “Al suo banco di mercato teneva e distribuiva volantini delle Br, che differenza c’è tra questa donna e Berardi? Non è un mistero per nessuno che a Genova nulla è stato fatto da polizia e magistratura contro le Br. Fate che le frustrazioni di polizia e magistratura non si scarichino tutte su Berardi!” L’imputato non ha nulla da aggiungere. Francesco Berardi viene condannato a 4 anni e sei mesi di carcere. Alcune sue ammissioni, subito dopo l’arresto, permettono agli inquirenti di arrestare un militante della colonna genovese delle BR. Il 17 ottobre 1979 l’avvocato Edoardo Arnaldi (che è anche il legale del militante arrestato su indicazione di Francesco Berardi) va a trovarlo nel carcere di Cuneo. Descrive così l’ultimo incontro con il suo assistito: « Era accasciato, sopportava male la detenzione, pensava con angoscia alla moglie e ai nipotini. Ma non mi è sembrato sul punto di uccidersi. Sperava di uscire dal carcere per la decorrenza termini e  di poter quindi affrontare a piede libero il processo di appello… ». Il 24 ottobre 1979 Francesco Berardi viene trovato impiccato nella sua cella. Nel documento di rivendicazione dell’attentato contro Vittorio Battaglini e Mario Tosa, colpiti mortalmente a Genova il 21 novembre 1979, la colonna genovese delle Br ricorda Francesco Berardi e comunica di avere assunto il suo nome.

Guido Rossa è nato a Cesiomaggiore, provincia di Belluno, il 1 dicembre del 1934, in una famiglia operaia. Con la famiglia emigra nel torinese. Inizia a lavorare a 14 anni, insieme al padre, in una officina di cuscinetti a sfere, poi va a Torino, alla Fiat, come fresatore. È appassionato di montagna, Alla fine degli anni ’50 conosce Silvia: diventerà sua moglie e avranno un figlio Fabio. Nel 1961 si trasferisce a Genova, la città della moglie, impiegata alla SIP,dove viene assunto come addetto alla manutenzione degli strumenti di precisione nell’acciaieria Oscar Sinigaglia dell’Italsider, a Cornigliano. E’ una fabbrica nella quale viene esercitato un efficace controllo politico. Gli operai appena assunti si sentono proporre subito l’iscrizione alla Cisl, il sindacato vicino alla DC. Anche lui viene avvicinato ma non aderisce. A dicembre Fabio, quasi 2 anni, rimane soffocato da una fuga di gas e muore prima che l’ambulanza giunga in ospedale. Guido Rossa ama la montagna ma non l’ambiente degli alpinisti che considera quasi tutti affetti da “indifferenza, qualunquismo e ambizione”. Le sensazioni e le soddisfazioni assaporate sulle montagne non gli bastano più. “Ha ancora un senso raggiungere vette pulite e scintillanti dove, solo per un attimo, possiamo dimenticare di essere gli abitanti di questo mondo dove si muore di fame, dove ci sono le guerre e le ingiustizie? Ma probabilmente queste prediche le rivolgo a me stesso, perché anche se fin dall’età della ragione l’amore per la giustizia sociale e per i diritti dell’uomo sono stati in me il motivo dominante, sinora ho speso pochissimo delle mie forze per attuare qualcosa di buono in questo senso (…). Da ormai parecchi anni mi ritrovo sempre più spesso a predicare agli amici l’assoluta necessità di trovare un valido interesse nell’esistenza, qualcosa che si contrapponga a quello, quasi inutile, dell’andar sui sassi”.  ”…Penso che anche noi dobbiamo finalmente scendere giù in mezzo agli uomini e lottare con loro, allargando la nostra solidarietà che porti al raggiungimento di una maggiore giustizia sociale… e ci aiuti a rendere valida l’esistenza nostra…” Nel 1962 viene eletto nel Consiglio di fabbrica per la Fiom-Cgil. Il 2 dicembre 1962 nasce Sabina. Legge molto ed è convinto che anziché inseguire un modello di uomo nuovo sia più utile costruire intorno a quello già esistente una società migliore. Condivide il nuovo corso del PCI e si iscrive al partito sul finire degli anni ’60. Dieci anni dopo si trova a fare i conti con il terrorismo che, secondo l’indicazione dei dirigenti del PCI, è l’emergenza contro cui fare argine.

Riccardo Dura, nato a Roccalumera, provincia di Messina, il 12 settembre 1950. Dopo la separazione dei genitori, quando aveva 4/5 anni, segue la madre, Celestina Di Leo, in Liguria. Di lui la mamma ricorda:” Fino a sedici anni è stato un figlio perfetto. Bravo a scuola, affezionato, pieno di premure per me. Guai a chi me lo toccava. Poi è tutto cambiato improvvisamente. Io mio figlio non l’ho più riconosciuto, ho tentato in ogni modo di assecondarlo, di farlo tornare quello di prima. Ma non c’è stato niente da fare. (…) È cominciato tut­to quando lui si è messo in testa di ricomporre la famiglia. Ne abbiamo parlato ma non siamo riusciti a raggiungere un punto d’intesa. Forse era passato troppo tempo. Forse lui ha sofferto per tutto questo, forse ha par­lato con altre persone che gli hanno messo in testa certe idee. (…)” Nel 1966/67 viene affidato a un istituto di rieducazione, la “nave Garaventa” a Genova. Per alcuni anni è iscritto all’istituto per geometri. Nel 1970 svolge il servizio militare in marina e il 6 settembre 1970 scrive una lettera alla madre: «Cara mamma, (…) come tu hai detto, io sono un uomo e non sono più un bam­bino e mi rendo conto ormai degli errori e mi dispiace che tu abbia sofferto per causa mia, perché capisco che da sei anni a questa parte ti ho fatto fare una vita grama, dandoti mille dispiaceri. E questo sono finalmente riuscito a capirlo, ma ve­di anche tu devi capirmi perché io mi sentivo soffocato dalla tua severità, dal tuo affetto quasi morboso. È comprensibile dal momento che ero il tuo unico figlio e tutto ciò mi impediva di crescere nel vero senso della parola, con i miei errori, le mie esperienze, la mia personalità; e quando in seguito a tutto ciò credevo di rico­minciare da capo da solo vedevo che fallivo e addossavo su di te i miei fallimenti. (…) Sembrava che ti odiassi, ma non ti odiavo credimi, cercavo solo di tornare in­dietro ma purtroppo non si può tornare indietro e non si può ricominciare a 17-18 anni a fare ciò che andava fatto a 14-15, e allora mi pesavano i rimpianti, le delusio­ni, la consapevolezza di essere un escluso, un fallito e a tutto ciò si aggiungeva l’i­dea che se mi fossi trovato in un’altra situazione e in un’altra famiglia non sarebbe andata così. Io non ti serbo rancore, nella mia mente di bambino ho attribuito a te, per anni, a ogni errore, a ogni ostacolo incontrato, io, subito, davo la colpa a te e così si accumulava in tutti questi anni una situazione dentro al mio animo che pote­va finire in due modi. O portarmi al delirio e alla pazzia, o trovare uno sfogo. Io avevo trovato lo sfogo che mi consentiva di non impazzire addossandoti tutte le colpe della mia disgrazia, del mio fallimento interiore. Con questo non devi pensa­re che ti abbia messo in croce tutti questi anni. In fondo, senza rancore, se ti ricor­di, anche tu tanti anni fa reagivi così, sfogandoti su chi ti capitava per mano, e, spesso e volentieri, con me, picchiandomi a sangue, reagivi all’amarezza della vita, ai dispiaceri, alle delusioni, ai ricordi e mi picchiavi a morte, poi mi chiedevi scusa e diventavi affettuosa e mi compravi le leccornie. Vedi mamma, la vita è dura e amara e ci rende come bestie e ognuno deve reagire in qualche modo per non di­ventare matto e c’è chi si ubriaca, come faceva mio padre – chissà forse anche lui aveva di questi problemi e cercava di affogarli nel vino – c’è chi si droga, chi si da alla pazza gioia, chi crede in Dio e si attacca alla religione, poi c’è anche chi è de­bole e non ce la fa e allora ruba, ammazza. Non devi pensare che questa sia vigliac­cheria, che sia per fuggire dalle proprie responsabilità gettandole addosso ad altri, perché è impossibile affrontare tutto a viso aperto, accollarsi tutto sulle spalle, com­portarsi da veri uomini. Nel periodo della gioventù questo è più che impossibile ed è penoso e difficile riconoscere le proprie colpe e le proprie responsabilità. La col­pa che ti attribuivo era quella di avermi soffocato col tuo affetto, io capisco il tuo desiderio che non mi mancasse mai nulla, che non facessi esperienze spiacevoli a mie spese, mi hai fatto crescere senza il senso della responsabilità. Hai impedito al­la mia personalità di svilupparsi, in poche parole intendo l’educazione della vita, il saper affrontare la vita da uomo e non da femminuccia, un Riccardo uomo coscien­te e responsabile di quel che faceva. Ho voluto fare tutto in un colpo quanto anda­va fatto piano piano e sono finito, come sai, in manicomio e in Garaventa, poi tutto perché tu, invece che lasciarmi le redini piano piano, le hai tenute con forza tiran­do sempre di più e tenendomi come un cane al guinzaglio. Un cane però che più il tempo passava più si inferociva. Mi è andata bene, io pur nella mia foga, nella mia smania di libertà, sono un tantino controllato se no a quest’ora saremmo a piangere in due sulla mia fine. Hai sbagliato anche nel senso che non dovevi impedirmi di seguire il mio istinto maschile e picchiarmi se andavo dietro alle ragazze perché è regolare che un ragazzo vada dietro alle ragazze, e anche alle donne. Tu non hai capito che a 13 o 15 anni un ragazzo cerca le donne grandi e non le ragazze della sua età che sono sceme come le papere. Così tu mi hai spinto nelle braccia di don­ne che mi lasciano lo schifo addosso e il cuore gonfio di amarezza. (…) Ho sbaglia­to a prendere il lavoro alla leggera, a trattare la gente a calci. Mi hai reso timido così che quando sono con una ragazza seria ho paura delle brutte figure, non vado a ballare perché non so ballare e a vent’anni non si può non saper ballare. A vent’anni faccio la vita di un vecchio. Mentre riesco ad ammettere lo sbaglio e riesco a ca­pire che questa vita è un fallimento non riesco invece a rifarmi un’esistenza ed ho paura che in futuro la mia vita sarà un inferno». Finita la leva è assunto come operaio in una azienda che prende gli appalti dall’Italsider. Quindi si imbarca su una nave come marittimo. Dal 1971 fino al 1973 milita in Lotta Continua. Ne è uscito per simpatia umana e politica verso i membri del gruppo XXII Ottobre che erano stati condannati mentre Lotta Continua non mostrava la stessa simpatia. I condannati erano proletari come lui, erano persone conosciute e apprezzate per il loro coraggio e la loro generosità e a differenza di Lotta Continua, dove si parlavano e basta, quei proletari, ” facevano le cose concrete”. Di li a poco inizia la sua militanza nelle BR, con il nome di Roberto. La polizia non saprà mai della sua appartenenza alla Br sino a quando le stesse Br non dichiareranno, dopo la sua morte, chi era. Muore insieme ad altri 3 brigatisti, Annamaria Ludman, Lorenzo Bettasa,  Piero Pancinelli, il 28 marzo 1980, per mano dei carabinieri del nucleo speciale antiterrorismo comandati dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa che li sorprendono nel sonno in un appartamento di via Fracchia 1, a Genova, sulla base alle rivelazioni del pentito delle Br Patrizio Peci. L’esatta dinamica delle morti non è conosciuta. Per 11 giorni i carabinieri hanno il controllo dell’appartamento e la magistratura non vi è potuta entrare come pure la stampa. Il volantino di commemorazione fatto ritrovare dalle Br il 30 marzo, lo ricorda così: Roberto: operaio marittimo, militante rivoluzionario praticamente da sempre, membro della direzione strategica della nostra organizzazione. Impareggiabile è stato il suo contributo alla guerra di classe che i proletari in questi anni hanno sviluppato a Genova. Dirigente dell’organizzazione che oggi è intitolata alla memoria di Francesco Berardi, con generosità e dedizione totali ha saputo fornire a tutti i compagni che hanno avuto il privilegio di averlo accanto nella lotta un esempio di militanza rivoluzionaria fatta di intelligenza politica, sensibilità, solidarietà, vera umanità, che le vigliacche pallottole dei carabinieri non potranno distruggere.

Vincenzo Guagliardo nel carcere di Opera, 1984 così lo ha ricordato: «Non è facile ricordare Riccardo in poche parole, dato il modo in cui morì, le cose che allora su di lui stampa e pentiti dovettero inventare per giustificare la strage e sbiadirne il senso all’opinione pubblica, e l’amarezza rabbiosa che tutto questo su­scitò in quelli come me. La strage di via Fracchia non fu affatto, come disse a caldo un primo comunicato delle BR in preda all’emozione, il risultato di uno scontro, ma una fredda esecuzio­ne comandata dal generale dei CC Dalla Chiesa per ottenere – credo -, a partire dalla delazione di Patrizio Peci, l’inizio della politica del “pentitismo”, ponendo l’e­secutivo d’allora e il presidente Pettini di fronte a un “fatto compiuto”. Riccardo ed io ci chiamavamo “compari” per ironizzare sulla nostra comune ori­gine siciliana. Quando dovevamo incontrarci in questa o quella città, quello di noi che combinava l’incontro cercava il posto migliore dove pranzare assieme come meglio potesse piacere all’altro, nell’ambito del possibile… La nostra amicizia da “compari” era il risultato di alcune belle e confuse bisticciate, avvenute all’inizio della nostra conoscenza, intorno ai massimi sistemi. Io venivo dalle fabbriche di Torino e Milano, dal carcere… Lui veniva da esperienze più solitarie: da piccolo lo aveva cresciuto in pratica solo la madre, come operaio aveva fatto soprattutto il ma­rittimo, come compagno era cresciuto in una città austera, non particolarmente ric­ca di “movimento”, come Genova. Credo perciò che in cuor suo individuasse, giu­stamente, la solitudine umana come il grande nemico, come la più grave contraddi­zione di questa società. Per lui dunque la militanza brigatista diventava una condi­zione totale in cui si faceva quel che era “giusto”; e poi si sarebbe visto come anda­va a finire… Come un nuovo Pisacane, vedeva le BR come un piccolo reparto delle masse oppresse che cominciava a fare la sua parte nel comune destino. Io ero più “politico”, individuavo me e lui in una comunità più vasta e contraddittoria delle BR, e citando Mao dicevo che il nostro cammino era un governo della contraddi­zione all’interno di questa più sconfinata realtà. Alla fine però, convenivo con lui che personalmente non sapevamo quanto noi avremmo visto, quanto sarebbe du­rata… Insomma, dopo lunghe discussioni trovavamo sempre l’accordo. Il parados­so brigatista era proprio questo: che in esso era sempre possibile la convergenza fi­nale di esperienze umane diverse. In quella dimensione, come sappiamo, quella potente allusione a una superiore e vivace concordia è stata sconfitta, ha incontrato dei limiti. Dove e come far rivivere questa convergenza delle singole esperienze umane in nuove dimensioni è quello che si vedrà. Esse comunque richiedono un cammino che ha bisogno di verità: a partire dal passato. E proprio di Riccardo sono state dette all’epoca della sua morte cose orribili o in­giuste grazie al fatto che era poco conosciuto. Gli altri compagni uccisi in via Fracchia avevano tutti delle vite conosciute da molti, non erano stati per mare, per pas­sare poco dopo nella clandestinità. I pentiti, per guadagnare punti e affinché si giu­stificasse e manipolasse l’opera di via Fracchia, presentarono la sua tensione mora­le, tutta interna a una visione dell’organizzazione quale comunità retta da valori di­versi da quella “ufficiale”, quale esempio di rigidità crudele. Uno giunse a dire che Riccardo l’aveva invitato a prepararsi la fossa per costringerlo a stare nelle BR. In particolare si insistè molto sul fatto che volle uccidere il sindacalista della CGIL Gui­do Rossa nonostante la volontà delle BR fosse quella di dargli una lezione ferendo­lo per aver denunciato un compagno di lavoro. La verità è quella che dissero allora le BR: un’azione armata può conoscere un esito diverso da quello che era nelle in­tenzioni. Riccardo rimane il “compare” di un possibile mondo diverso che sognavamo in­sieme. Me lo vedo ancora che si preoccupa, un giorno, di consigliare ad alcuni sco­nosciuti turisti francesi, seduti al tavolo accanto al nostro, di non sciupare uno squi­sito sugo di pesce mettendoci sopra il formaggio grattugiato».

Vincenzo Guagliardo è nato in Tunisia, il 12 maggio 1948. La mamma è di origini siciliane, emigrata giovanissima, il padre, Salvatore,  nato in Tunisia, è figlio di un italiano emigrati nel secolo precedente. Ha un fratellino. La Tunisia è ancora un protettorato francese ma negli anni seguenti i nazionalisti di Habib Bourguiba combattono per rovesciare il protettorato e conquistare l’indipendenza. Nel 1956 la raggiungono. Negli anni i proprietari terrieri e gli agricoltori stranieri, principali clienti di Salvatore Guagliardo, che di mestiere fa il fabbro e il meccanico agricolo, lasciano il paese. Viene a mancare il lavoro e la famiglia, nel 1962, sale su una nave  e sbarca nel porto di Napoli. Viene chiusa, in quarantena, nel campo profughi di Fuorigrotta, alloggiata in un unica stanza con il pavimento di cemento, bagno e doccia fuori, in comune con tutti gli altri che si trovano li per i controlli di eventuali malattie infettive. La famiglia Guagliardo, dopo un mese, sale su un treno e va a Torino. Salvatore trova lavoro alle catene di montaggio della Fiat. Vincenzo comincia a prendere confidenza con la lingua leggendo i volantini e i giornali di fabbrica che il papà porta a casa. Prima l’italiano l’aveva letto soltanto su qualche fotoromanzo arrivato in Tunisia. Adesso l’italiano è l’unica lingua con cui può comunicare con i suoi compagni dell”istituto tecnico per geometri.  In classe c’è il crocifisso e Vincenzo, cresciuto in terra musulmana, tra bambini di ogni religione, non comprende il perché dell’esposizione di quell’unico simbolo. Non riesce a adattarsi al clima freddo e alla nebbia. In Tunisia aveva visto i francesi disprezzare gli arabi qui vede gli italiani del nord trattare male gli italiani del sud. Una situazione assurda di cui si discute a casa e così, attraverso il padre e i suoi amici, in quel nuovo mondo operaio e leggendo tutti quei giornali si forma. I discorsi ascoltati dal padre e dai suoi amici lo spingono, di contro alla linea filosovietica del PCI verso il PSIUP ma la morte di Togliatti e la pubblicazione del memoriale di Yalta  spazzano via i dubbi. Nel 1964 Vincenzo sceglie di iscriversi alla Fgci. Ascolta perplesso le critiche dei dirigenti ai moti di piazza Statuto, alla “carica antisistemica”di quei disordini, controproducente per la linea del partito proprio perché non diretta e organizzata dalle sue strutture. Nella rivolta e nelle violenze di piazza s’era affermata una sorta di spontaneismo malvisto dal Pci, che invece i teorici dell’ope­raismo considerano una novità positiva. Un’espressione della volontà rivoluzionaria che cova nell’Italia del boom econo­mico, a tutto vantaggio degli ideali socialisti e anticapitalisti. Sono soprattutto gli intellettuali radunati intorno alla rivi­sta «Quaderni rossi» di Raniero Panzieri a riempire di simbolismo quell’epi­sodio, elaborando nuove teorie sulla centralità della fabbrica e della figura dell’operaio-massa nella trasformazione della società. L’analisi sfocia in una netta contestazione della dirigenza sindacale, con l’effetto di tirarsi addosso l’accusa di dare sfogo a un estremismo infantile, oltre che di fare il gio­co del padronato. Vincenzo resta affascinato da quei discorsi. Partecipa alle riunioni indette presso la sede della rivista, e questa consuetudine gli viene rinfac­ciata dai dirigenti della Federazione comunista di Torino. Si sente spiato: decide di continuare nelle «frequentazioni sbagliate» e esce dal partito. Comincia a lavorare nell’ar­chivio della rivista fondata da Panzieri, e a collaborare col giornale «La voce operaia», i cui contenuti derivano da indicazioni e discorsi provenienti dai lavoratori della Fiat: denuncia dei ritmi di lavoro, dei soprusi da parte dei capi, delle discriminazioni e dei favoritismi all’interno dei repar­ti. Vincenzo scrive qualche articolo, si dedica alla stampa e alla diffusione fuori dalle fabbriche. Vincenzo abbandona gli studi. In casa tutto ciò non è visto con favore se non vuoi continuare a studiare, bisogna che ti trovi un’occupazione retribuita. Non bastano le idee, per vivere. Per un breve pe­riodo Vincenzo fa il manovale nel settore dell’edilizia, poi passa a lavori saltuari finché viene chiamato per un pe­riodo di prova alla Fiat di Rivalla, lo stesso stabilimento dove suo padre entra ogni mattina: quindici giorni nel re­parto verniciatura, impegnato nelle operazioni di finitura. E’ il 1968. Vincenzo ha vent’anni e in quelle due settimane si sforza di restare tranquillo, intento solo a lavorare su scocche, pianali e sportelli che gli passano davanti. Cerca di non dare nell’occhio per farsi prendere in via definitiva, ma l’assunzione non viene con­fermata. Senza motivi ufficiali, respinto e basta. In realtà lui è convinto che le ragioni siano politiche: nell’ambiente operaio la sua militanza è nota, e le schedature alla Fiat sono una pratica attiva da tempo. Vincenzo comincia a bussare alle fabbriche dell’indotto Fiat. Per un po’ lavora a una fresatrice da dove escono pez­zi per automobili, ma anche li l’esperienza è breve: nasce una questione sugli straordinari non retribuiti, troppe ore al giorno. Guagliardo e un suo compagno chiedono lo stesso trattamento delle grandi fabbriche, il padrone risponde pa­gando gli arretrati in cambio delle dimissioni dei due operai. Chi se ne va guadagna in fretta la nomea di rompiscatole, che si aggiunge ai partico­lari riferiti nelle schedature, e trovare un nuovo posto di­venta ogni volta più difficile. Vincenzo fa parte di questa schiera di «inde­siderabili», che mentre vaga di fabbrichetta in fabbrichetta accompagna i sommovimenti del 1968 e 1969 dando vita alla Lega studenti operai, nata dalle ceneri dei «Quaderni rossi» per favorire l’incontro tra le due realtà della contesta­zione. Si stampa un volantino quotidiano chiamato «Lotta continua», sul quale vengono riportate istanze e proposte uscite dalle assemblee pressoché permanenti dove si discute di ideali, rivendicazioni e strumenti di lotta. Vincenzo par­tecipa, ascolta e parla, finché una componente studentesca giunta da Pisa riesce a prendere il sopravvento sulle altre, si ap­propria dell’intestazione del volantino e assume le forme di un nuovo gruppo extraparlamentare. A Vincenzo tutto questo non piace. Lui resta ancorato alla tradizione operaia e finisce per distaccarsi da gruppo che elabora quel bollettino di propaganda. Continua a partecipare alle lotte dentro e fuori le fabbriche: sull’orario di lavoro si batte per far passare l’idea di lavorare meno e lavorare tutti. L’etica del lavoro salariato appartiene al partito e al sindacato, non a lui. Guagliardo saputo della bomba di piazza Fontana all’uscita della fabbrica dell’indotto Fiat dove lavora si convince che il socialismo come meta possibile passa anche attraverso fasi di scontro fisico dalle quali è difficile tirarsi indietro e qualunque forma di opposizione operaia non può passare attraverso le posizioni del Pci e del sindacato tra­dizionale, considerate una inutile deriva socialdemocratica, organica nei fatti al disegno egemone del padronato. Prende contatto con le BR, incontra Renato Curcio. Partecipa al radicamento del primo nucleo delle BR a Torino. Nel 1974 decide di trasferirsi a Milano per motivi politici e di lavoro. A Torino per un attivista conosciuto come lui, del quale fra padroni e poliziotti circolano le fotogra­fie che lo immortalano con il megafono in mano durante le manifestazioni, è diventato quasi impossibile ottenere un’assunzione. Andrà dove le Br sono nate e dove c’è ancora bisogno di militanti. A Milano si presenta all’Alfa. Il test va bene  ma poi la fabbrica ha ridotto la quantità di assunzioni e lui è rimasto fuori. Fa domanda alla Magneti Ma­relli. Dopo un periodo di prova come operaio alla catena di montaggio lo assumono. A Milano,  Vincenzo prosegue nel doppio impegno, ufficiale e clandestino. Ma dopo l’uccisione di Margherita Cagol avvenuta il 5 giugno 1975 le BR hanno bisogno di nuove forze da impiegare a tempo pieno. Per questo viene deciso che Guagliardo entri in clandestinità. All’inizio del 1976 restano da definire solo alcuni, come la base presso la quale Vincenzo andrà ad abitare, e quali saranno le prime incombenze. Guagliardo è in contatto quasi quotidiano con Curdo e con Nadia Mantovani. S’incontra spesso con un ex operaio del­la Fiat, Angelo Basone, già militante del Pci, segretario della sezione Presse della Fiat Mirafiori, clandestino da qualche tempo. Per alcuni spostamenti o sopralluoghi Basone utilizza una Fiat 127 alla quale i brigatisti hanno sostituito la targa, fab­bricandone una falsa copiando i numeri di quella di un autobus di linea. Dai primi di dicembre i carabinieri hanno scoperto che la targa della 127 corrisponde a quella di un mezzo di trasporto pubblico e la seguono. Il 18 gennaio 1976 i carabinieri vedono il conducente parlare della 127 parlare con una coppia, mai intercettati e decidono di intervenire. Li fermano. Il conducente è Angelo Basone. L’altro uomo è Vincenzo Guagliardo, e la donna è sua moglie. I carabinieri non lo sanno, ma Vincenzo la stava salu­tando per l’ultima volta, prima di interrompere ogni con­tatto e diventare un clandestino. Aveva appuntamento in un altro luogo con Basone, ma quello passando li aveva visti e s’era fermato per salutare la donna, che non in­contrava da tanto tempo. Gli investigatori, convinti che fosse in corso una «riunione strategica», hanno pensato di interromperla. I tre vengo arrestati. Vengono arrestati tutti e tre. Contemporaneamente scattano le perquisizioni negli ap­partamenti e nei box frequentati dal guidatore della 127. In via Maderno 5, vengono arrestati Renato Curcio e Nadia Mantovani. Davanti al magistrato Vincenzo Guagliardo afferma: Sono un militante delle Brigate rosse, mi dichiaro pri­gioniero politico. Il 15 giugno 1977 inizia il processo. Guagliardo deve rispondere di resistenza a pubblico ufficiale, ricettazione e porto abusivo d’arma da fuoco, il pubblico ministero chiede la condanna di 6 anni e 400mila lire di multa con la sentenza gli viene comminata una a 3 anni e 6 mesi per la pistola che aveva addosso al momento dell’arresto mentre è assolto dalle imputazioni di resistenza e ricettazione. A Torino, il 9 marzo 1978, nell’aula della corte d’assise ap­positamente costruita nella caserma La Marmora, ricomincia il processo alle Br. In una delle gabbie c’è pure Guagliardo. Il 23 giugno dello stesso anno, Guagliardo viene condannato a 5 anni. Secondo la prima la sentenza nella storia giudiziaria italiana alla “banda armata Brigate rosse” ai militanti dell’organizzazione non vengono concesse le attenuanti Neppure quelle che di solito si concedono agli in­censurati che compaiono la prima volta davanti a un giu­dice, per via della «tracotanza» mostrata dagli imputati detenuti – Guagliardo compreso, precisa la corte d’assise – attraverso atteggiamenti costantemente intimidatori e ingiuriosi, Pirrisione delle norme, il programmatico e apologetico consenso ai più atroci delitti rivendicati dalle Br anche in epoca recente, la cosciente, deliberata e pubblicamente annunciata determinazione a condurre sempre nuove forme di attacco al cuore dello Stato. Non resta quindi che giudicare valutando, caso per ca­so, le singole responsabilità. Distinguendo, come impone la legge, tra chi ha organizzato la banda armata in qualità di promotore e chi ha aderito a qualcosa che c’era già, da semplice «partecipe». Quando arrivano a Guagliardo, i giudici scrivono che è un militante delle Br per sua stessa ammissione, e che l’in­contro con Basone durante il quale è stato arrestato era chiaramente «un “appuntamento di servizio” connesso con le esigenze e l’attività delle Br». Tuttavia, il processo non ha posto in luce elementi tali da consentire di attribuire al Gua­gliardo la veste di organizzatore in seno alla banda armata, né che abbia in altro modo contribuito alla ideazione o preparazione di im­prese criminose, o alla designazione di obiettivi d’azione del gruppo. Il suo ruolo viene declassato rispetto a quello disegnato dall’accusa, e la pena inflitta è inferiore a quella richiesta. In più, la corte stabilisce che per  Guagliardo e Nadia Man­tovani i tempi della detenzione preventiva sono abbondan­temente scaduti. I due brigatisti devono perciò essere liberati, seppure «con l’obbligo della presentazione settima­nale all’autorità di pubblica sicurezza». Rimesso in libertà Vincenzo Guagliardo torna a casa sapendo che ci resterà per poco. Il 3 agosto 1978 non si presenta dai carabinieri a firmare si unirà alla cellula delle BR di Genova e stringe amicizia con Riccardo Dura. Il 25 ottobre Guido Rossa denuncia Franco Berardi. Guagliardo non ha mai partecipato a un attacco con armi da fuoco contro le persone ma gli altri compagni gli propongono di partecipare all’azione di gambizzazione di Guido Rossa. Ma questo non è un  problema se la lotta armata è l’unica stra­da percorribile per provare a diffondere qualche seme di comunismo futuro, come lui ritiene, gli tocca comportarsi di conseguenza. Non è un problema sparare a un uomo in carne e ossa, per di più operaio e comunista come lui se questi ha imbocca­to un’altra via, e s’è messo d’intralcio alla sopravvivenza delle Br nelle fabbriche. Non può passarla liscia. Guagliardo va a fare un paio di sopralluoghi nel­la strada dove dovrà colpire. IL 24 gennaio 1979 è il giorno fissato. Vincenzo Guagliaro non conosce Guido Rossa, non l’ha mai visto. Riccardo Dura sì e appena comparirà sulla scena gli darà il segnale.  Guagliardo dovrà sparare un paio di colpi, e scappare. Il furgone rubato nel quale i due briga­tisti sono chiusi è parcheggiato a ridosso  della Fiat 850 di Guido Rossa. Il sindacalista-delatore dovrebbe scendere in strada verso le 6,30 del mattino. Loro sono nel furgone. Dura guarda fuori, attraverso una fessura. Guagliardo impugna una Beretta 81 calibro 7,65 col silenziatore montato; al cenno del compagno apre la portiera del furgone e va in­contro a Rossa che s’accorge di lui e sale in macchina. Il brigatista spara tre colpi. Il primo per rompere il ve­tro del finestrino, gli altri due per ferire l’operaio: centra la gamba e il ginocchio sinistro. L’urlo della vittima gli con­ferma che l’ha colpito, l’operazione è compiuta. Ora biso­gna solo fuggire. Invece no. Senza parlare, Dura si avvicina alla 850. Finisce di mandare in frantumi il vetro del finestrino col calcio della pistola e fa fuoco anche lui. Altri tre proiettili raggiungono l’operaio, uno al cuore. Stavolta i colpi fanno molto rumore perché la Hp Browning calibro 9 non è silenziata. Non era previsto che dovesse sparare. Il terzo compagno che aspetta in macchina, Lorenzo Carpi,  sente quei colpi imprevisti e si chiede che cosa sia successo. Tutti e tre scappano. Vincenzo Guagliardo viene mandato dai vertici delle Br in Veneto a rifondare la colonna locale dell’organizzazione. Organizza gli agguati mortali a Sergio Gori, vicedirettore del Petrolchimico di Mestre, il 29 gennaio 1980, e ad Alfredo Albanese, Commissario capo di P.S. di Venezia, responsabile della Sezione Antiterrorismo, Vice Questore aggiunto, il 12 maggio 1980. Dopo l’estate Guagliardo tornerà insieme a Nadia Ponti, la sua nuova compagna, a Torino per cercare di rifondare la colonna brigatista. A dicembre, la domenica mattina, l’ultima prima di Natale Nadia e Vincenzo hanno un appuntamento con un militante alla periferia di Torino. Con lui entrano nel bar e subito dopo sono travolti da un gruppo di uomini armati. Nadia e Vincenzo sono immobilizzati, il terzo brigatista fugge senza che nessuno gli corra dietro. Era lui che aveva avvisato la polizia. Il 19 gennaio 1981 davanti alla prima sezione del tribunale di Torino viene processato per il possesso illegale delle armi che aveva al momento della cattura. Verrà condannato insieme a Nadia Ponti a 7 anni . L’8 maggio a Torino è iniziato un nuovo processo alle Br. C’è pure Guagliardo. Il 17 giugno è condannato a 13 anni. Il 3 agosto1981 il Fronte carceri che insieme alla colonna napoletana delle Br avevano sequestrato Ciro Cirillo, uccide Roberto Peci, fratello del pentito Patrizio Peci. Scelta che Vincenzo non condivide, anche nell’ottica del conflitto rivoluzionario in corso. Se ci fossero stati ele­menti certi per sostenere che Roberto Peci ha fatto parte della trama che ha portato il fratello a collaborare con ca­rabinieri e giudici, magari attraverso il «doppio arresto», si sarebbe potuta comprendere la decisione di processarlo e perfino punirlo. Ma dalle informazioni che circolano anche nelle carceri, quella ricostruzione risulta infondata. E così l’esecuzione assume i connotati di una rappresaglia più simile alle ritorsioni naziste che alle azioni di giustizia partigiana. Comincia a pensare che la sua organizzazione si stia allontanando troppo  dai traguardi che voleva raggiungere; sta forgiando persone pericolosamente simili ai modelli che intendeva combatte­re; sta adottando sistemi che rischiano di rendere il mondo peggiore di quanto fosse. Il prigioniero politico Guagliardo vede nella divisione in diversi gruppi delle BR motivo di riflessione e ciò incomincia a incrinare le sue granitiche certezze. Ma i fatti successivi al 1982 quelli dell’uccisione di Ennio Di Rocco, delle guardie giurate Sebastiano D’Alleo e Antonio Pedio e la prima condanna all’ergastolo inflitta dalla Corte d’assise di Venezia per gli omicidi Gori e Albanese lo fanno sentire distante dall’organizzazione in cui ha militato per un decennio. Non rinnega nulla ma si rende conto di non volere essere coinvolto oltre. Nel gennaio 1983 viene condannato ad un altro ergastolo nel processo dei delitti commessi dalla colonna romana delle Br mentre lui faceva parte del comitato esecutivo che li aveva avallati. A febbraio 1983 la sentenza del tribunale per l’assassinio di Guido Rossa gli riconosce la mancanza di premeditazione e lo condanna a 28 anni, pena tramutata in appello in ergastolo. Ad aprile comincia un nuovo processo a Torino, al quale Guagliardo assiste senza parlare. Anzi in una udienza legge, anche a nome di Nadia Ponti, una dichiarazione nella quale annuncia che la sua militanza nelle Br è conclusa. Da questo momento è un ex brigatista che non collabora con i magistrati perchè non è un pentito ne un “dissociato”. Questa sua posizione lo porta a rifiutare i vantaggi dalla legge “Gozzini”, perché ritiene che questa offra agli ex “militanti rivoluzionari” un modo di chiudere l’esperienza personale ma la svuota di quel significato collettivo tramite il quale può essere compresa. Il 26 aprile 2011, dopo 32 anni di carcere, contrariamente all’art. 176 del Codice Penale che per chi ha avuto la pena dell’ergastolo prevede la decorrenza di 26 anni, ha ottenuto la libertà condizionale. Ovvero per i successivi 5 anni  potrà dormire a casa seguendo qualche ridotta prescrizione, poi sarà totalmente libero. Potrà riavere anche il passaporto.

(3 aprile 2012)

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